Il primo Cineforum proposto dall’Associazione, The other side of America. Luci e ombre del sogno americano, è stato un viaggio di quattro serate attraverso il racconto di un’America del razzismo e delle periferie.

Il nostro team di cinefili ha selezionato 4 film che sono stati proiettati in lingua originale con sottotitoli in italiano al Cinema Pedagna di Imola (ingresso a offerta libera):

  • Blackkklasman di Spike Lee (21/10/21 − ore 20.45)
  • Un sogno chiamato Florida di Sean Baker (28/10/21 − ore 20.45)
  • Sorry to bother you di Boots Riley (04/11/21 − ore 20.45)
  • American beauty di Sam Mendes (11/11/21 − ore 20.45)

I quattro film, tutti estremamente contemporanei, sono stati selezionati per riflettere su un’America diversa da quella solitamente dipinta dal cinema hollywoodiano: l’America del razzismo e del KKK, per quanto riguarda Blakkklansman (2018); la vita quotidiana delle famiglie della periferia di Orlando, appena fuori il ricco Disneyland, in Un sogno chiamato Florida (2017); la storia di giovani senza prospettive, in Sorry to bother you (2018); la crisi di valori di una tipica famiglia borghese americana nel cult American beauty (1999).
 
Al termine di ogni proiezione è stato allestito il nostro drink bar nella saletta dedicata del Cinema Pedagna dove è stato possibile discutere del film appena visti, guidati da un preparato moderatore pronto a dare vita al dialogo. Le sinossi dei film sono state anche condivise in anticipo con i membri della nostra mailing list, perché potessero arrivare preparati al dibattito.

Come ospiti speciali delle serate sono intervenuti:

  • Abril Movumbi, laureanda magistrale in Internetional Cooperation of Human Rights and Cultural Heritage. Nel 2018 ha lavorato nell’Intergruppo Anti-Razzismo e Diversità (ARDI) del parlamento europeo e nel 2020 è stata selezionata come leader per il programma Transatlantic Inclusion Leaders Network del German Marshall Found.
  • Cameron Beckett, dottorando all’Università di Bologna in sociologia medica, consegue il master in Global Culture presso l’Alma Mater Studiorum, dopo la laurea in Sociologia all’Università di Toledo, Ohio. Durante la carriera accademica, la sua ricerca si è concentrata sulle disuguaglianze sociali e sul razzismo istituzionale, in particolare statunitense. Capire le strutture sociali in America implica intrinsecamente esplorare l’esperienza nera e le realtà materiali del razzismo sitemico, della violenza bianca e del privilegio bianco.
  • Giulia Rossi, studentessa di Lettere Moderne presso l’Università di Bologna. Appassionata di letteratura americana contemporanea, da Arthur Miller a David Foster Wallace, si è dedicata allo studio dei processi sociali, economici e culturali che hanno interessato gli Stati Uniti dal secondo dopoguerra ai giorni nostri.

Blackkklasman

RON: Salve, il mio nome è Ron Stallworth. Con chi parlo? 
DAVID: Sono David Duke. 
RON: Il mago del Ku Klux Klan, quel David Duke? 
DAVID: A quanto pare. Che posso fare per lei? 
RON: Beh, visto che me l’ha chiesto… io odio i neri. Odio gli ebrei, i messicani e gli irlandesi. Gli italiani e i cinesi… ma soprattutto odio a morte quei vermi neri, lo giuro su Dio. E chiunque altro non abbia puro sangue bianco ariano che gli scorre nelle vene. 
DAVID: Sono felice di parlare con un vero bianco americano. 
RON: Dio benedica l’America bianca!

Grand prix de Cannes e Premio Oscar per la miglior sceneggiatura non originale, Blackkklasman segna, nel 2018, il glorioso ritorno di Spike Lee.


Siamo nell’America dei primi anni ’70, momento di poco successivo alla morte di Malcom X e di Martin Luther King, e quello che vediamo è la vera storia di Flip Zimmerman e Ron Stallworth, rispettivamente interpretati da Adam Driver e da John David Washington. I due, un detective ebreo e un poliziotto afroamericano, collaborano per infiltrarsi tra le fila del Ku Klux Klan al fine di sventare un possibile attentato terroristico.


Il segreto del grande successo di questo film può essere ritrovato nella capacità del regista di toccare e approfondire forti tematiche sociali (come il razzismo e la violenza dell’America degli anni ‘70) senza rinunciare all’intrattenimento dello spettatore: pellicola ricca di battute fulminanti, black humor e interpretazioni energiche capaci di far emergere il messaggio progressista senza appesantire la visione. Più volte infatti la messa in scena di Spike Lee ci porterà a ridere dell’idiozia dei suprematisti bianchi, così pericolosi ma allo stesso tempo così stupidi, e ci farà immergere senza alcuno sforzo nella complessa società americana di inizio anni ’70, continuamente scossa dai movimenti per i diritti civili. 


BlacKkKlansman è un film da vedere più che da raccontare, con cui divertirsi e con cui riflettere, fare un salto indietro nel tempo e scoprire che le cose oggi forse non sono poi così diverse. Quest’opera parla del passato per renderci più consci di come è il nostro presente e di come possiamo fare per migliorarlo, proprio come fecero all’epoca i detective Stallworth e Zimmerman. 


In poche parole, BlacKkKlansman è già un classico moderno.

Un sogno chiamato Florida

Definito da alcuni come uno dei film sull’infanzia migliore di sempre, Un sogno chiamato florida, racconta, attraverso lo sguardo di un gruppo di bambini, la dura realtà dei cosiddetti hidden homeless (i senzatetto nascosti), prodotto della crisi economica del 2008. A pochi metri dal grande sogno americano Orlando, l’enorme e sfavillante parco di divertimenti, viene rispettosamente osservata la vita di Moonee, 6 anni, e dei suoi amici e compagni di giochi. Un sogno chiamato Florida intreccia nella sua pellicola – oltre al racconto del fallimento del capitalismo e delle condizioni delle persone schiacciate e nascoste all’ombra della meravigliosa America delle grandi possibilità – la storia di donne “sbagliate”, madri “imperfette”, ma forti e insostituibili. 
 
In questo film colpiscono le tinte pastello degli stabilimenti in cui vivono i piccoli protagonisti. Il violetto del motel “Magic Castle” contrasta con la vita dei suoi abitanti: Moonee e Halley, sua madre (una giovane ragazza-madre disoccupata), Scooty, amico di Monee, e Bobby, il manager del motel, interpretato da Willem Dafoe. 
Con uno stile quasi documentaristico e uno sguardo mai indiscreto, Sean Beaker, regista di Tangerine (2015), riflette sullo schermo in modo onesto e diretto lo sguardo di questi piccoli protagonisti (la macchina da presa non si alza quasi mai oltre il metro e venti), della loro realtà di figli dei nuovi poveri d’America. I bambini vivono una vita apparentemente spensierata, convertendo le loro vicissitudini in avventure, ma gli adulti affrontano la realtà, con la paura della precarietà del futuro e delle conseguenze delle proprie azioni, soprattutto nei confronti dei loro bambini. 
 
Il film si compone come un puzzle: attraverso scorci di vita quotidiana e frammenti di conversazioni, Sean Baker presenta agli spettatori la vita dei protagonisti. Le immagini a volte crude e le inquadrature movimentate rincorrono i bambini nelle loro peripezie, e accompagnano Halley nel suo percorso di ragazza madre sempre alla ricerca disperata di un modo per sostenere lei e la sua bambina. 
A fine visione viene da chiedersi: spetterà a Moonee lo stesso destino della madre o riuscirà a uscire dal circolo vizioso della povertà e della delinquenza?

Sorry to bother you

Cassius “Cash” Green è un giovane afroamericano di Oakland che vive di stenti nel garage dello zio assieme alla sua ragazza. Un giorno viene assunto dal call center della multinazionale RegalView come centralinista addetto alle vendite, riuscendo ad avere successo grazie ad un escamotage: imitare al telefono la cadenza e la pronuncia di una persona bianca. La sua ascesa attirerà anche l’attenzione di alcuni colleghi appartenenti al sindacato, che vedono in lui un potenziale alleato per le loro lotte contrattuali. Arrivato ai “piani alti”, Cash scoprirà ben presto che la RegalView forse nasconde terribili segreti. 
 
Da queste poche righe, Sorry to bother you sembrerebbe essere un classico film di critica del mondo delle corporation americane, del lavoro operaio sottopagato e sulle lotte sindacali che animano l’America. Sicuramente è questo, ma anche molto altro. Se all’ultimo periodo di sinossi aggiungessi a segreti…“legati al mondo delle armi e dell’ingegneria genetica”? 
Il film, dopo una serie di premesse quasi classiche, imbastisce un racconto schizzato, fantascientifico e grottesco. Un colpo di scena dopo l’altro, la pellicola di Riley è in grado di scuotere tanto la coscienza politica dello spettatore quanto la sua sospensione dell’incredulità. 
 
L’originalità della scrittura dell’opera è completata da un cast interessante e ben bilanciato, tra cui spicca un centrato Lakeith Stanfield, che dismette momentaneamente gli abiti del rapper per indossare quelli dell’attore. 
 
Fin dove si può spingere la moralità di un uomo prima di cedere al potere dei soldi? Che tipo di folli e oscuri segreti nascondono le corporation in America? Anche la nostra anima può avere un prezzo? 

American beauty

Lester Burnham è un uomo qualunque, un borghese come tanti della periferia americana, con un noioso lavoro d’ufficio, una classica casa con gardino, una moglie petulante e perbenista, una figlia adolescente impossibile da comprendere. Lester è così sconsolato da considerare la masturbazione mattutina sotto la doccia il momento più alto della sua giornata e, per evadere dalla quotidianità, fa sogni erotici ad occhi aperti sulle amiche della figlia. 


Un giorno tutto cambia, curiosamente in concomitanza con l’arrivo di nuovi vicini. Lester decide di rivoluzionare la sua vita. Al diavolo il perbenismo ostentato, la vita da borghesuccio che credeva di desiderare tanto. A Lester piaceva fumarsi le canne, tenersi in forma, sognava di guidare una Firebird, fare l’amore con ragazze più giovani e sentirsi privo di tutte quelle responsabilità che la vita gli ha messo sulle spalle. 


Forse non è troppo tardi per ricominciare, si può ripartire da zero, fregandosene di quello che potrebbero pensare gli altri come quella perfettina di tua moglie e quella scorbutica di tua figlia. 
American Beauty è il capolavoro di Sam Mendes, un ritratto ironico e spietato della middle class americana, delle sue paure, delle sue idiosincrasie e dei suoi sogni repressi e nascosti. 


Kevin Spacey e Annette Benning sono i perfetti interpreti da Oscar di questo dramma di inizio XXI secolo, ironici, sopra le righe, profondi e indimenticabili come i loro personaggi. 


La scrittura di Alan Ball è lo scheletro e l’anima di un’opera che stimola e provoca lo spettatore, mettendolo di fronte a un dilemma fondamentale per l’uomo moderno: cosa ci rende davvero felici? L’ideale di persona realizzata nel proprio lavoro e con una famiglia a cui provvedere è davvero il massimo a cui si può aspirare? 
I problemi di tutti i giorni a volte sono opprimenti, la vita può riservare ingiustizie, si può essere intrappolati in una vita che non si sente come propria ma, come dice Lester, “è difficile rimanere arrabbiati, quando c’è così tanta bellezza nel mondo”.